La vodka è finita

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Alessandro Bernardini, Ed. Ensemble pp.458 , Euro 16

Il romanzo d’esordio di Alessandro Bernardini si può forse definire un romanzo storico con intreccio principale basato su una crime-story. Sullo sfondo la Perestroika, Piazza Tienanmen e la caduta del muro, la via di Gorbaciov e la fine del socialismo reale, sotto i piedi la Roma di fine anni ottanta, le sue due guance entrambe sporche, la strada dura e criminogena. Ugo, un ragazzo cresciuto a cavallo tra l’educazione valoriale materna e la tradizione criminale paterna, avrebbe il fisico, il profilo e la drammaticità per essere il protagonista, ma si stanca presto di esserlo. In realtà, si rivela un sasso lanciato nella trama del romanzo che urta le vite degli altri personaggi, abbattendoli come birilli in fila e prestando loro di volta in volta il centro della scena, la quale si fa policentrica con naturalezza, senza spiazzare e rischiando spesso di intrigare il lettore. Il ritmo è sostenuto ma in grado di respirare, lo stile è riconoscibile e dosa con cura essenzialità e pathos. L’azione è restituita con immediatezza mentre qualche dialogo risulta appesantito dalla rinuncia al romanesco. Più si va avanti più i protagonisti interessano per quel che sono, indipendentemente dalle rispettive traiettorie e, contemporaneamente, il fuoco su cui gli occhi del lettore non possono che posarsi diventa non Ugo né gli altri, ma l’Altro, un personaggio anonimo sulla cui ossessiva esistenza si aprono squarci di narrato che viaggiano paralleli al resto della trama.   L’anima scura, l’Altro personaggio, il parassita emotivo del libro, l’oscena figura notturna, striscia  abilmente con le proprie pagine crude tra le tracce narrative, breve e velenosa, senza essere antagonista.

Ogni personaggio è il primo antagonista di se stesso e ognuno trova inoltre nel libro il proprio avversario naturale: il ladro e lo sbirro, il figlio e lo pseudo-padre, il prigioniero e il carceriere, lui e lei. L’ombra invece, il personaggio anonimo, non è l’antagonista di nessuno se non del romanzo stesso, col quale flirta da vicino senza farne parte. La tinta più scura, che diventa metro e fondo scala dei peccati degli altri e di fronte alla quale verrebbe voglia d’assolverli tutti, sbiancandoli per amnistia. La presenza dell’Altro impedisce al lettore di concedersi una lettura inquinata dall’assenza di dubbi, liberando la fiction dal proprio lato rassicurante e in questo, l’anonimo,  è il personaggio con la funzione letteraria più importante. Il meccanismo tiene, funziona, regala bei momenti di lettura, si entra in contatto con la psicologia dei ruoli, si legge con curiosità senza che l’opera si impicchi a essa. I protagonisti sono universi che crollano, inesorabili, corrono contro se stessi fino all’ultima pagina, planando in un lungo epilogo, in cui il ritmo rallenta e  i nodi vengono al pettine, finché la Vodka è finita davvero e verrebbe voglia di averne ancora un po’.

Il formato in brossura regge bene i maltrattamenti, i colori di copertina tendono a sbiadire migliorandone a sorpresa l’aspetto cromatico, d’un verde inquietante quando il testo è fresco di stampa. Bella e appropriata invece la grafica di copertina. L’impaginazione non infastidisce, a una prima lettura non si vedono refusi, il formato è maneggevole, dopo averne goduto, sullo scaffale (ma anche da qualsiasi altra parte, come ci ricorda Bernardini postando foto del volume nei posti più improbabili), ci sta bene.

Voto: 7

[new] Posizione sullo scaffale: Sezione dominata da Eddy Bunker, settore italiano tra Smeriglio e De Cataldo.

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L’armata dei sonnambuli

Wu Ming, pp. 796 Einaudi, 21 Euro

Dopo Q, 54, Manituana ed Altai, L’armata dei sonnambuli chiude a detta dei suoi autori, almeno per un po’, il ciclo dei romanzi storici del collettivo. Tutti romanzi di livello, abbiamo apprezzato molto l’outsider novecentesco 54 e  amato incondizionatamente il capolavoro Q che, insieme al discendente (non propriamente un seguito)  Altai, esaltavano nell’ambientazione tardo medievale gli elementi protomoderni.   Sia le vicende degli anabattisti che quella  di Manuel Cardoso e Giuseppe Nasi, richiamavano esperienze della modernità, come l’anarchismo e il primo sionismo (o forse più semplicemente il sogno della fine della diaspora ebraica). Anche gli altri due romanzi della serie ci parlano di sogni infranti e, nel caso di Manituana, di pre-modernità. Ci piace quindi l’idea che a suggellare il ciclo  giunga proprio l’evento che segna l’inizio della modernità,  la Rivoluzione Francese. In realtà il romanzo inizia a rivoluzione avvenuta, col Re di Francia in procinto di perdere la testa, con la rivoluzione  vittoriosa che diventa paradossalmente più fragile, non più ingaggiata soltanto nella lotta ancestrale con la reazione, ma minacciata innanzitutto  da se stessa, dai propri eccessi, dalle divisioni, dal tradimento degli ideali e dall’eterna aporia  rivoluzionaria, nella quale il potere  non può essere abbattuto senza prenderlo, incarnando cioè un nuovo potere che ne riproduce, almeno in potenza,  i pericoli e gli abusi.   La Parigi dei primi anni ’90 del settecento in cui Wu Ming ci trascina è un micromondo sotto gli occhi del mondo di fuori, di cui percepiamo soltanto in sottofondo gli echi di  paura  e di ammirazione, mentre per le sue strade viviamo lo scontro tra le fazioni rivoluzionarie, o cripto-reazionarie, attraverso gli occhi di un pugno di personaggi perfettamente descritti e introdotti, affascinanti, ben delineati. Da questi si dipanano le sottotrame destinate a convergere in un concerto di ibridazioni di genere, dall’horror, al fumetto, al soprannaturale (c’è  un riferimento a Wolverine, per dire), che pur spiazzando, non inquinano la credibilità dell’atmosfera storica, che anzi ne esce felicemente arricchita in un buon connubio di impegno, storia e di evasione. Fuori dalle vicende dei personaggi, comunque avvincenti, l’affresco sullo sfondo resta potente, solido, dai colori realistici, rafforzato dai contributi documentali ed epistolari che inframmezzano i capitoli. Più difficile da valutare la ricerca sul linguaggio, una sfida non da poco, nel simulare in italiano i dialetti e gli slang popolari della Francia dell’epoca. Senza aver fatto nessuna analisi linguistica, l’impressione è che spesso l’operazione riesca, altre volte, anche quando suonare un po’ forzata, abbia comunque la capacità di spezzare il ritmo della narrazione permettendo agli autori di divertirsi con sberleffi, neologismi e l’arte antica, sempre raffinata, del turpiloquio creativo.  Mutano come detto anche gli stili (epistola, documento, narrazione classica, discorso libero indiretto e linguaggio parlato popolare) e la persona narrante che varia dalla terza, alla prima, alla quarta, in una polifonia nella quale i Wu Ming sono maestri (e non da oggi) nel non mettere mai a rischio l’unità strutturale dell’opera. Nell’epilogo bibliografico troviamo infine la sospensione della narrazione vera e propria e ci vengono presentati e i riscontri storici in cui rintracciare i personaggi, le loro vicende e, dove possibile, ciò che fecero in seguito. Scopriamo così che anche i protagonisti più improbabili, i fatti meno credibili e gli inserti apparentemente più pop, trovano comunque un proprio spunto di partenza, anche soltanto come credenza diffusa, nei documenti dell’epoca. Bene, bravi, meglio così, ma se pure a guidarvi fosse stata soltanto  Madama Immaginazione il romanzo ci sarebbe piaciuto lo stesso.

Voto: 7+

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ZeroZeroZero: Il ritorno di Roberto Saviano

Roberto Saviano, pp.444
Feltrinelli, Eur0 18

Dal 2006, anno del successo planetario di Gomorra, Roberto Saviano ha compiuto un lungo percorso artistico, civile e umano. Ha incontrato i grandi della cultura italiana e mondiale, ha collaborato con alcuni di essi, partecipato al dibattito civile del paese, guadagnato stima e credibilità internazionali.
Dal 2006 Saviano ha scritto diversi articoli, ancora sulla criminalità e su coloro che vi si sono opposti a rischio della vita, ma con le parole ha anche dipinto appassionati ritratti di virtuosi del nostro tempo come Petruccioli, Vollmann o Messi, contribuendo al percorso di costruzione di una propria estetica, indipendente e trasversale seppur legata, agli aspetti civili, sociali e letterari delle sue opere. Questi articoli furono raccolti nel 2009 in un libro… [continua a leggere]

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La presa di Macallè.

A. Camilleri, Euro 12
Sellerio Editore, pp. 274

Torno a leggere il Camilleri non-poliziesco e non montalbanico, cioè l’unico che mi interessi, qualche anno dopo aver divorato quel piccolo capolavoro che è Il Re di Girgenti. La presa di Macallé è stato inserito da diversi siti e giornali tra i dieci migliori romanzi italiani del decennio 2000-2010, se è vero che queste classifiche lasciano spesso il tempo che trovano è anche vero che il romanzo si è distinto se non altro in mezzo a una produzione  copiosa, vendutissima e di buona qualità come quella di Camilleri. Romanzo storico sullo sfondo  del grottesco apogeo dell’autocelebrazione del regime fascista durante la guerra d’Etiopia e insieme  romanzo erotico caparbiamente pruriginoso nella traccia principale, senza forse toccare le vette del Re di GirgentiMacallé è un’ opera innovativa  e complessa. Innovativa, seppur scritta nel 2003 dal un autore allora  già quasi ottantenne, al punto da essere inserita da Wu-Ming nella galassia (fin troppo estesa) di testi contigui al New Italian Epic (NIE) e soprattutto per la capacità di raggiungere il grandissimo pubblico malgrado nella vicenda si facciano esplicitamente largo temi durissimi come la pedofilia, la violenza politica, la guerra, l’appoggio clericale al regime  e il tradimento dell’infanzia. Il romanzo è scritto nel consueto siciliano smussato  e col solito stile apparentemente leggero, allusivo e immaginifico di Camilleri. La sensazione di leggerezza, mai come stavolta volutamente ingannevole, è rafforzata dalla scelta di raccontare la borghesia fascista siciliana attraverso il punto di vista del piccolo protagonista di soli sei anni, utilizzando cioè la griglia interpretativa dell’infanzia, dove la guerra è un romanzo a fumetti, il sesso una lotta tra adulti, la sodomia un festeggiamento greco  tra maestri  e giovani allievi tipico ai tempi di Sparta, l’inferno una realtà concreta e imminente per ogni peccato  commesso e l’omicidio la giusta punizione terrena per i nemici che offendono il Duce e Gesù. L’orrore, perché di questo spesso si tratta,  raggiunge il lettore con lieve ritardo dovuto al filtro posto in atto  dall’immaginario infantile, ma quando arriva sfonda colpendo forte allo stomaco. Tale spiazzamento   coglie costantemente il lettore  alla sprovvista senza in realtà risparmiargli nessuno scandalo e nessuna ferita. Nel complesso rimando tra scoperta del sesso, contesto storico, abusi, opportunismo clericale, violenza domestica e propaganda politica, l’infanzia si sgretola, crolla e soccombe, lasciando  il protagonista Michelino privo di difese, esposto alla cupidigia del mondo adulto senza aver avuto il tempo di comprenderla ed elaborarla, da un lato spalancando sulla sua giovane esistenza l’abisso dell’autodistruzione  e gettando dall’altro le fondamenta su cui può aver luogo la genesi disumana del mostro: il dritto e il rovesio della rinuncia al valore della vita.

Macallé rappresenta l’atto d’accusa terribile e definitivo contro l’anti-pedagogia Balilla della quale l’autore, classe 1925, fu vittima e testimone in prima persona.

Voto. 7

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Europe Central

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William T Wollmann, pp. 1063      euro 25,  Strade blu Mondadori

Una botta.Un mattone,imperdibile.

L’incrocio di infiniti personaggi,collegati e coinvolti nelle grandi “tragedie” politiche e storiche di Germania e Russia.Dal famoso “Patto di non aggressione”alla caduta del muro.

Peccato per la terribile edizione che crolla in mano. Ma poi,come dice il “padrone di casa”come tenere insieme più di 1000 pagine?

Per appassionati del tema. Non per tutti.

Voto: ?

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Giuliano

Gore Vidal, pp.663
Fazi, Euro 12

Giuliano non è Cesare, non è Adriano, né Ottaviano Augusto, regnò pochi anni quando l’impero ormai cristianizzato prendeva progressivamente coscienza della propria fragilità e dell’imminente decadenza. Nipote di Costantino il quale aveva elevato il cristianesimo a religione imperiale, Giuliano è l’apostata, il filosofo e il grande abiziosissimo generale,  l’ultimo imperatore  a tentare la restaurazione, in termini religiosi, amministrativi e militari, dello spirito della Roma autenticamente imperiale. Come Ciro Spitama, il protagonista di Creazione l’altro grande romanzo storico di Vidal ambientato nell’antichità, Giuliano è insieme il protagonista e l’espediente di Vidal per spaziare con una narrazione di ampio respiro su un momento nodale della storia della cultura umana. Arriva in ritardo Giuliano, nel suo tentativo di rivitalizzare il paganesimo in un impero dove i vescovi  hanno ormai troppo potere, il cristianesimo è largamente diffuso e animato da agguerrite frange molte delle quali motivate da un ardente fanatismo. La biografia di Giuliano è raccontata in gran parte attraverso l’espediente diaristico ed epistolare, viene  divisa da Vidal in tre parti  e decolla narrativamente soprattutto a partire dall’età adulta del futuro imperatore, tutto il romanzo è però magistralmente funzionale alla vera e propria gioia che l’autore sembra provare spaziando dalla storia alla filosofia, dalle dispute tra ellenismo e cristianesimo,  allo studio approfondito e documentato della vita di corte e di strada nelle varie città dell’impero. La nuova Costantinopoli, l’Atene degli stoici e dei sofisti, Antiochia, la  Parigi ancora piccola e lontana dell’epoca, Roma mai visitata ma descritta più volte fantasma e simbolo della grandezza ereditata, prendono forma reale e  tangibile, costruendo un’ambientazione coerente, ampia e dettagliata, perfino dotta nei passaggi storici più significativi. Ai personaggi (anch’essi esistiti realmente) di Prisco e Libanio che si scambiano ad anni di distanza dalla scomparsa dell’imperatore  lettere nostalgiche rievocandone le gesta e  il progetto stroncato, sono affidati gli sconfinamenti nel registro ironico e quasi comico cui raramente, anche nelle opere più serie e rigorose, l’autore rinunciava.  L’imperatore di Gore Vidal cresce di pagina in pagina e ben presto si fa amare:  è colto, istintivo, talvolta temerario, autocritico, incliene al confronto e al perdono, vitale e fin troppo entusiasta. Proprio questa vitalità, la paradossale fede cieca nella superstizione (apparentemente incompatibile con la visione laica e tollerante in materia religiosa di cui era in un certo senso promotore come legislatore) e l’incontenibile  ingenuità tipica dei puri e dei pensatori inclini alla speculazione filosofica, ne sanciscono l’inesorabile Tragic Flaw.

Giuliano, esempio quasi prototipale di Romanzo Storico di eccezionale riuscita, del quale avevo sentito parlare benissimo fin dalla prima edizione di Fazi, giaceva  da anni sullo scaffale d’eccellenza della mia libreria. in attesa. La morte di Gore Vidal, straordinario intellettuale eretico, libertario democratico jeffersoniano e grande narratore, mi ha spinto a onorarne la memoria iniziando finalmente la lettura. Neanche a dirlo, l’onore in realtà è stato tutto mio, come ogni grande storia Giuliano è un prezioso regalo ai lettori.  Riposa in Pace, maestro.

Voto: 8

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Sopravvissuti

Richard K. Morgan, pp.489
Edizioni Gargoyle, Euro 18,90

La quarta di copertina ci informa che  Sopravvissuti di Richard K. Morgan è l’ultimo tentativo di sovvertire i cliché del genere Fantasy, in realtà l’operazione sembra più un tentativo di modernizzazione posticcio e mal riuscito. Incentrato sulle vicende di Ringil e dei due coprotagonisti Archet e Egar, reduci provenienti da etnie diverse di una guerra combattuta fianco al fianco dieci anni prima, il romanzo mantiene inalterati i cliché fondamentali a partire dal più antico e difficile da sdradicare cioè dalla minaccia cosmica e oscura che incombe sul mondo intero e di cui nessuno ha reale contezza a parte i nostri eroi, cliché talmente radicato nel genere che, per intenderci, nemmeno Martin è riuscito a violare nelle proprie cronache. Poco importa sinceramente che Ringil sia omosessuale e Archet lesbica e che il sesso la faccia da padrone per lunghe pagine, si aggiungono elementi al fantasy, talvolta in modo rozzo rispetto ad esempio alle sofisticate metafore sadomaso de “la spada della verità” di Goodking, senza che la struttura venga intaccata o innovata in profondità. Addirittura demenziali invece le scelte lessicali, ricordiamo che  ci si trova pur sempre in un medioevo fantastico (seppure si possa intuire in certi passaggi che lo scenario sia in realtà ambientato secoli dopo una catastrofe avvenuta in un mondo tecnologicamente più avanzato, forse il nostro), si resta senza parole dunque leggendo nelle prime cento pagine l’uso dei seguenti vocaboli e locuzioni: fidejussione, incentivi, speculare sul mercato, settore, prodotti finiti, materialista, faccia da impiegato, pic-nic e chiosco delle limonate (sic!, me che siamo nel mondo dei peanuts?). Compare perfino il termine Avatar, antico quanto i Veda indiani è vero, ma ormai rientrato nell’uso comune contemporaneo con un nuovo significatoo linguistico troppo legato alle vite virtuali internettiane e ad un film brutto e spettacolare dove una tribù di mohicani azzurri fa a cazzotti coi marines. Ho letto in rete post di lettori entusiasti che si complimentavano con una lusingata Maria Antonietta Struzziero, traduttrice del romanzo, la quale, comunque colpevole, ha maltradotto attualizzandoli i termini medioevali utilizzati originariamente da Morgan o, in alternativa, non ha posto rimedio alla scempio proposto dall’autore sforzandosi un po’ nel trovare sinonimi coerenti con l’ambientazione. Peggio ancora,  qui la colpa è necessariamente dell’autore, alcuni  personaggi usano un linguaggio volgarissimo, a cominciare dall’ aristocratico ribelle Ringil, senza che tale volgarità sia anch’essa contestualizzata e utilizzi forme del trivio anche lontanamente compatibili con un contesto che non sia quello rintracciabile nella filmografia dei sobborghi criminali newyorkesi. Ne risulta che in quasi cinquecento pagine la parola fottuto risulta di gran lunga la più utilizzata, scommetterei con più di mille occorrenze, fino a picchi di tre “fottuto” nella stessa frase. Se Morgan   progettava di innovare l’Eroic Fantasy facendo parlare l’eroe come Eminem, l’operazione sembra complessivamente, e prevedibilmente, fallita. Detto questo, il romanzo parte male, con passo piuttosto inconcludente e noioso, l’assenza di una mappa (la mappa ci vuole!) impedisce di visualizzare geopolitica e distanze del mondo proposto da Morgan, ma si riprende sul finale con l’entrata in gioco dei Dwenda, il popolo oscuro che torna dai piani immateriali a riconquistare la terra perduta, introdotti efficacemente in un crescendo dal ritmo piuttosto incalzante e riuscito. Sopravvissuti è un romanzo che conclude il proprio percorso narrativo lasciando abilmente il giusto spazio  per un immancabile sequel, che quasi di sicuro non leggeremo. Gargoyle torna a proporci una copertina davvero molto bella, cioè all’altezza dei suoi standard, un prezzo alto e, ahimé, una valanga di refusi come già successo negli ultimi volumi dell’editore recensiti su queste colonne.

Voto: 5+

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G.R.R. Martin “In fondo al buio” e “Fuga impossibile”.

George R. Martin, pp.384
Gargoyle Extra, EURO 16,90

Causa l’attesa per ogni nuovo capitolo delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco  e del loro direttamente proporzionale successo, amplificato dall’eccellente Serie TV ,da qualche anno gli editori fanno a gara nel ri-tradurre vecchie opere dell’autore, che non nasce con le cronache anche se probabilmente morirà prima di averle concluse (e qui la rattazio pallorum  per il buon George è d’obbligo). Dopo due raccolte di racconti una buona e l’altra ottima ad opera di Mondadori, Gargoyle propone prima il Battello del Delirio ed ora l’opera prima narrativa dell’autore col titolo di “In fondo al buio”, titolo infelice e meno fedele rispetto a quello della prima traduzione italiana ormai introvabile se non on-line in formato PDF, col titolo più appropriato di “Luce Morente”. Del Martin migliore si riconoscono senz’altro la costruzione di alcuni personaggi, innanzitutto il non-protagonista Jaan Vikary, e la straordiaria profondità dell’ambientazione che, seppur in un’opera relativamente breve, richiede un glossario a fine volume e si compone di una rappresentazione complessa e differenziata dei popoli umani discendenti degli avi terrestri, centinaia d’anni dopo la parziale colonizzazione della Galassia. Accattivante in particolare l’aggressivo, sessista, tradizionalista e xenofobo popolo dei  Kavalar, intorno a cui tutta la vicenda ruota e del quale Martin ricostruisce il contesto socio-antropologico, la mitopoietica e la Storia, con una coerenza di cui pochi autori del genere sono capaci.  Splendida è anche l’ambientazione in senso stretto, un pianeta errante, privo di legami orbitali intorno a qualsiasi stella, un pianeta-cometa si potrebbe dire, in transito per la regione  colonizzata dall’uomo, sul quale si stabilisce per qualche decennio il dispendioso e faraoico allestimento di un festival delle culture umane dello spazio esterno. Ogni popolo installa sul pianeta il meglio della propria architettura, urbanistica, arte e tecnologia, oltre che numerosi campioni della propria biosfera, ben sapendo che nel volgere di qualche anno il pianeta Warlorn uscirà per sempre dalle regioni umane condannato ad una eternità di buio, gelido e silenzioso viaggiare. Bella idea e nella presentazione di tale idea sta il bello del romanzo, in cui Martin è abile  nell’accompagnare il lettore tra una cultura e l’altra, un paesaggio e il successivo, non trascurando i conflitti generati da tale artificiosa contiguità. Mentre la quarta di copertina ci avvertiva che col susseguirsi delle pagine la vicenda si sarebbe fatta più interessante in un rincorrersi di inseguimenti e duelli, proprio questo cedere all’avventura ci è risultato più noioso e banale del gran lavoro di preparazione necessario ad introdurla. Non mancano vicende d’amore e d’onore, qualche cattivo un po’ schiavo di se stesso e qualche personaggio efficacemente ambiguo, ma della trama e dello stile resta poco, permangono le immagini e la bellezza d’un mondo fantastico ma plausibile, che si vorrebbe visitare se non altro al cinema. Nota di demerito a Gargoyle (che in passato abbiamo spesso elogiato) per le vagonate di refusi, la storpiatura del titolo e la copertina, non proprio bruttissima ma non all’altezza degli standard della casa editrice, soprattutto perché nei prezzi non certo da tascabile delle loro edizioni si paga anche l’eccellenza grafica cui c’hanno abituato.

Voto: 6-

Martin, Gardner, Daniel, pp.320
Fanucci, Euro 17,50

Fuga impossibile è anch’esso ambientato in un futuro remoto su una colonia terrestre abitata prevalentemente da latini (o forse più propriamente dall’immagine che un americano bianco ha dei latini). Dichiaratamente scritto a sei mani da Martin, Gardner Dozois e Daniel Abraham non è chiaro qualce ruolo abbia avuto il più conosciuto dei tre se non forse quello di innalzare il numero delle copie vendute e dei paesi in cui è stato tradotto. Per il resto poco da dire, una crime story in salsa fantascientifica, un decente romanzo di avventura imperniato sul tema del doppio del quale tra cloni, avatar e simulacri, nel genere non c’è certo penuria. Costoso nella versione rilegata del 2008, copertina brutta davvero, una lettura della quale si può fare a meno senza rimpianti.

Voto: 5

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Archiviato in 2010, 2012, fanucci, gargoyle, george martin, r r martin, science fiction

La ragazza dai capelli strani.

David Foster Wallace, pp.300
Minimum Fax, Euro 12,50

Quando sento per anni una marea montante di altri lettori, di critici, di autori che stimi ed eminenti case editrici parlare  della grandezza e del genio di un autore, in particolare un contemporaneo, oltre alla curiosità sviluppo una piccola dose  di diffidenza e sospetto. E se a me facesse schifo (Burroughs)? O lo trovassi noioso e illeggibile (Pynchon)?(*) Tipicamente in questi casi tendo a differire la lettura nel tempo in attesa del momento in cui prestare al testo la giusta attenzione, del resto se è buono come dicono si tratterà di una lettura da gustare, indegna del tempo  spezzettato rubato alla sala d’attesa o all’orinale. Così ho atteso a lungo  per convincermi, alla fine senza stupore, che Wallace   era bravo, terribilemente bravo, tanto bravo da metterti in soggezione come autore  e come lettore, schiacciato tra la sensazione costante che per scrivere così bisogna essere, oltre che colti e talentuosi, coraggiosi e imprevedibili perfino a se stessi, e quella costante di aver perso qualcosa, qualche sfumatura e chiave di lettura nascoste tra i nidi di rondine della prosa dell’autore. “La ragazza dai capelli strani”  è una raccolta di racconti atipica ed impeccabile, dove un talento miracolosamente eclettico sperimenta  la narrazione pulita nell’accurata rivisitazione storica come lo slang nel racconto surreale, dal comico al grottesco, dal realismo magico applicato alla provincia americana, fino all’immediatezza visiva della scrittura cinematografica che sembra già pronta per essere sceneggiata. Raramente le storie sono lineari, si inizia dalla fine o più spesso nel mezzo, si torna talvolta indietro con gli epiloghi che si ribaltano in prologhi, si utilizza la polifonia dei narratori multipli e ci si sente sempre lievemente e piacevolmente spiazzati. I finali aperti abbondano,  così come i giochi semantici e i riferimenti a personaggi noti del mondo reale,  eppure non si avvertono mai leggendo, l’irritante sospensione del testo   incompiuto,  la noia del citazionismo, l’arrogante autoreferenzialità del meta-letterario. Colto e coraggioso dicevamo, come un autore  che non voglia condannarsi a battere sempre le stesse strade o peggio ancora rinchiudersi nell’autobiografismo non può non essere,  Wallace scrive quello che gli pare non quello che si aspetta che il lettore voglia leggere e lo fa  variando i ritmi, alternando gli stili, da virtuoso  suona  tutti gli strumenti e la  melodia che ne esce non può essere confusa con altre, smarca ogni somiglianza e nella propria sofisticata artificiosità soffoca sul nascere ogni possibile falsificazione. Giunti a pagina 300, nel silenzio appagato che segue  l’esecuzione, ci si ricorda che l’autore, morto di recente, non suonerà più nulla di nuovo e quel silenzio, afono requiem per un punto di vista sul mondo perduto per sempre, si permea di delicata tristezza.

Voto: 7.5

(*) Sì, Pynchon, embé? Problemi?

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Linguaggio Muto

Desmond Morris, pp.91, Di Renzo Editore, Euro 10

Chi scrive adora Desmond Morris per il suo meraviglioso saggio “La scimmia nuda“, in cui l’essere umano viene studiato da uno zoologo ed etologo per quel che è innanzitutto: un mammifero, un primate, un animale di branco, al contrario l’acquisto di questo piccolo saggio è frutto del frainteso auspicio che il nuovo testo battesse in qualche modo gli stessi sentieri di divulgazione scientifica. In realtà si tratta di un’autobiografia bibliografica di Morris, il quale ripercorre le tappe dei propri studi e del proprio estro, dalle ricerche universitarie ai programmi televisivi sugli animali, dedicando ad ogni nuovo progetto un breve capitolo. Dalla lettura emerge il quadro generale all’interno del quale la passione e il metodo di osservazione di Morris si sono sviluppati negli anni, più alcune interessanti riflessioni sulla natura dell’arte,  Morris aveva aderito infatti al movimento surrealista e fece dipingere  a lungo alcuni scimpanzè dei quali espose più volte le opere. Il resto è aneddotica di scarso interesse, tutto sommato deludente.

Voto: 4.5

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Redenzione Immorale

Philip K. Dick, pp. 198
Fanucci Coll. Imm. Dick, Euro 17

Dopo qualche anno di pausa torno a leggere Dick, del quale nel frattempo è in corso di pubblicazione e ri-pubblicazione da parte di Fanucci la sterminata opera omnia. Redenzione Immorale esce tardissimo in Italia considerando che venne pubblicato negli USA per la prima volta nel 1956, da un Dick praticamente agli esordi. Vuoi perché appunto agli esordi, vuoi perché nel 1956 la scena era ancora dominata dalla quella SF popolare, prevalentemente  avventurosa e spesso legata a riviste di settore indirizzate a un pubblico di giovani e giovanissimi che lo stesso Dick avrebbe poi contribuito a rivoluzionare, ci si poteva aspettare un romanzo non molto dickiano. Al contrario tutti i temi della produzione successiva, esclusa la maniacale visionarietà esegetica dell’ultimo periodo, compaiono già come ampiamente sviluppati. Il testo si colloca pienamente nel filone della SF sociologica, di cui Dick fu rifondatore e prosecutore (si pensi a Orwell, Bradbury ed Heinlein), incentrata nei suoi romanzi  sul rapporto tra l’individuo e il Sistema, sempre distopico o in procinto di diventare tale, e su una serie di elementi cari all’autore come lo sdoppiamento del sé, la pre-cognizione e una neo-colonizzazione interplanetaria ostica, pionieristica e priva di orizzonti idilliaci o sorti progressive. Il Sistema stavolta è imperniato su un puritanesimo di stampo protestante, sessuofobico e pettegolo, in cui sanzioni e punizioni per una sbronza o un atto, vero o presunto, di fornicazione, vengono emanate in pubbliche assemblee di condominio, dove vicini di casa bigotti e un po’ guardoni fanno le pulci alla vita privata dell’ imputato, pena lo sfratto o il trasferimento coatto su una qualche colonia agricola. Una distopia basata su un governo fondamentalmente teocratico, seppure il controllo avvenga in forma collegiale, intransigente e non clericale (cioè, in una sola parola, anglosssassone), affermatasi dopo un olocausto planetario tale da rendere la Terra in buona parte non più sfruttabile dal punto di vista agricolo.  Interessante, avvincente il giusto,  non rientra tra i capolavori di Dick ma rappresenta probabilmente uno dei passi intermedi lungo il cammino che lo porterà ad essi. Decisamente costoso: Fanucci si dia una regolata, si tratta pur sempre di un edizione  economica, per un romanzo scritto sessant’anni fa, parte della produzione comunque “minore”  di un pur grande autore.

Voto: 6+

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I senzabrera

Anna Chiara Spigarolo, EURI ? Libreria Pellegrini, pp. 112

Il giornalismo italiano ricorderà questo decennio come quello della scomparsa di alcuni tra i grandi maestri nati all’inizio del secolo scorso,  quando la storia sembrava muovere passi più grandi e  giornalismo e letteratura sconfinavano sovente l’uno nel campo dell’altra.  Montanelli, Biagi e Bocca, innanzitutto, ma anche Pintor e la Fallaci, cambiarono e modellarono la professione in Italia ad immagine dei loro talenti e delle loro personalità, voci indipendenti  e ascoltate, espressione ognuna a modo suo, della coscienza politica, morale e storica del paese. Morto invece nel decennio precedente (1992) si dimentica più spesso Gianni Brera che, senza essere meno talentuoso e poliedrico, si occupò prevalentemente di sport, costituendo un punto di riferimento centrale per i suoi colleghi, ai quali permise di guadagnare “dignità di giornalisti” al pari di coloro che si occupavano di cose più serie, come negli stessi anni  fece per certi versi Helenio Herrera con la categoria degli allenatori. Istrione, geniale inventore di neologismi, penna raffinata, romanziere, colto polemista e grande conoscitore degli aspetti tecnici dell’atletica e del calcio (questa una delle sue innovazioni principali), quelli della mia generazione ricordano Brera prevalentemente per le tarde comparsate televisive durante le qualio beveva acqua e fumava in studio, trattato da voce nobile, fuori dai tempi e dalle regole della televisione. Ce lo ricordiamo, per quel poco, lombardissimo, uomo dalla cultura universale e dal carattere legato indissolubilmente al campanile, la favella intrisa di un provincialismo compiaciuto e ricercato. Il libro della Spigarolo ci restituisce il Brera degli esordi, quello della maturità e soprattutto  il Brera che , sui quotidiani più importanti e sul Guerino, scriveva e scriveva come pochi. Inimitabile per talento e istinto, non fondò nessuna scuola,  non lasciò eredi, ma una generazione intera di giornalisti sportivi di rango cresciuti alla sua ombra, i senzabrera appunto, mentre gli spazi sui giornali e i tempi della notizia, si comprimevano fino all’essenziale e oltre di esso, collassando nell’attuale fluisso ininterrotto di pillole informative su Internet e sui canali tematici all-news. Soprattutto a questo aspetto e alla trasformazione del ruolo del giornalista, attuale e futura, è dedicata la seconda parte del breve saggio, in cui l’ev0luzione dei mezzi tecnologici,  delle modalità di consumo e l’invasione delle immagini  comprimo l’immaginario del lettore a vantggio dell’evidenza  inconfutabile dei fatti. Ci si domanda leggendo se tale passaggio non abbia  tolto al giornalismo sportivo, forse definitivamente e in particolare per la carta stampata, spazio  per l’ approfondimento tecnico, culturale e di costume e in definitiva all’invenzione letteraria scritta in bello stile, che permetteva a volte che nelle cronache sportive riecheggiasse un poco dello spirito dell’epica: nella   suggestiva e talvolta romantica narrazione  della sfida, del gesto e dell’eroe.

Con la copertina in cartonaccio, la mancanza (se ho ben capito) di un ISBN e la difficle reperibilità, acnhe on-line, del testo, l’editore non ha reso al lavoro dell’autrice un buon servizio.

Voto: N/C (come per quasi tutti i saggi)

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Figlio di Dio.

Cormac McCarthy, pp.168 Einaudi Tascabili, Euro 10

Scrive Ovunquelibri, bel blog scoperto di recente, a proposito de “La strada”, considerato insieme a Suttree, Non è un paese per vecchi e la Trilogia della frontiera, tra i capolavori dell’autore:

“Già da un po’ di tempo avevo l’impressione che alcuni romanzi sgradevoli potessero comunque essere definiti “belli”. Adesso ne ho la certezza.”

Ecco, per me Figlio di Dio, scritto nel 1973 e pubblicato da Einaudi nel 2008, ne è l’ennesima conferma.

E’ pure lui un figlio di Dio, su questa terra quanto noi, esiste anche lui, Lester Ballard. Lui che è il mostro, sporco, vuoto, ignorante, ossessivo, psicotico, depravato, violento e amorale. Lester Ballard è un bruto, un emarginato folle e disturbato, abbandonato in una provincia di emarginati tra i quali si mimetizza come un pigro parassita apparentemente non più eccentrico di altri. Sul suo girovagare allucinato dopo aver perso la casa, solitario e schiavo di tutti i propri peggiori istinti,  McCarthy concentra e monopolizza la narrazione a più voci, lasciando che l’intero romanzo collassi sulle  miserie e gli orrori del mostro. Il male che  Lester Ballard incarna è assoluto eppure semplice, privo di macchiavellismi e di aspirazioni, senza neppure le sofisticate liturgie   dei serial killer della letteratura e della cinematografia recente. Un male assoluto e assolutamente privo di fascino, privo del proprio contraltare d’ordine e normalità se non nelle ultime pagine, Ballard è l’antagonista di se stesso. Non c’è traccia di poliziotti buoni sulle sue orme, di nemici epici che ingaggiano con lui una sfida manichea, di vittime braccate con le quali solidarizzare. Cormac McCarthy ci lascia soli con l’orrore,  senza via di scampo, senza redenzione e senza sollievo. Ce lo racconta soltanto perché esiste e può dunque essere raccontato. McCarthy non vi ha portato fin qui, ai limiti del narrabile, per permettervi di giudicare, di stupirvi o di comprendere, ma soltanto per osservare.

Non aspettatevi altro, fin dal titolo, solo un figlio di Dio.

Voto: 7

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Il nome del vento


Patrick Rothfuss, pp.728
Fanucci, EURO 16,90

Mi considero de facto un ex-appassionato di Fantasy (che qui su Ozia distinguiamo dal Fantastico) o, in alternativa, un appassionato stufo nel non trovare ormai da troppi anni pane per i suoi denti.  Dovendo scegliere una tra le due definizioni tenderebbe a far propendere per la seconda la mia ostinazione nel cercare di tanto in tanto una nuova saga che valga la pena di essere letta dopo le molte recenti delusioni a cominciare dagli stereotipatissimi nani di Heitz, passando per gli illeggibili orchi di Nicholls e via proseguendo per gli sterminati  esercizi di grafomania del defunto Jordan. Fanno eccezione naturalmente l’inarrivabile saga di George Martin e,  limitatamente ai primi due volumi, la trilogia dei Lungavista di Robin Hobb, esclusi i quali ogni approccio negli ultimi dieci anni al Fantay contemporaneo mi è apparso un’inutile perdita di tempo e diottrie.  L’ opera di Rothfuss ha ottenuto un plebiscito , accuratamente documentato nella quarta di copertina del secondo volume, tra gli scrittori del genere convincendomi alla fine ad un ulteriore speranzoso tentativo che, premetto fin da subito, è riuscito soltanto a metà.  La storia ci viene narrata dallo stesso protagonista Kvothe utilizzando l’espediente narrativo della dettatura delle proprie memorie ad uno storico del suo tempo dal nome poco originale di Cronista, per riconsegnare la sua eroica e controversa vita alla posterità ripulita da menzogne, leggende e falsi miti. Per chi sa cos’è un RPG e ne ha praticato i sacri testi, Kvothe è l’eroe multiclasse  per eccellenza: mago, ladro assassino, bardo e, plausibilmente, anche guerriero; un personaggio efficace e ben costruito che monopolizza interamente la narrazione e le cui gesta ci vengono narrate fin dalla prima infanzia. Il limite più grande del romanzo è però il passo  col quale ci vengono narrate, terribilmente lento tanto che dopo 730 pagine circa il giovane eroe ha appena 15 anni, non ha finito le scuole, non ha ancora baciato la ragazza che ha impiegato 70 pagine per presentarci e  altre 300 circa per conquistare. Interi capitoli se ne vanno in bevute in locanda, chiacchiere, piccoli progressi, beghe tra liceali e inestinguibili problemi economici descritti al dettaglio, anzi allo Jot, dei quali siamo sempre minuziosamente informati.

Nello stesso numero di pagine la Terra di Mezzo era già sprofondata nel caos, a Westeros erano morti almeno tre protagonisti indispensabili e ne erano stati introdotti una trentina, mentre Ivanhoe era finito e riiniziato da un pezzo.

Le idee buone ci sono, a cominciare da un sistema di magia piuttosto efficace e innovativo, molti personaggi secondari funzionano, così come i dialoghi e le riflessioni del protagonista il cui tragic flaw è verosimile quanto tuttosommato prevedibile. Alcune ingenuità  compaiono riguardo alla coerenza dell’ambientazione:  le nozioni di fisica diffuse nel mondo di Rothfuss sembrano fuori luogo a cominciare dalla nozione di gravità e l’uso corrente dell termine galvanico (il cui etimo è un paradosso in un  medioevo per di più parallelo), l’Accademia degli Arcanisti ha troppi elementi simili a una moderna università, il sistema economico traballa per facilità degli scambi commerciali e della circolazione della moneta, mentre un’arte magica potenzialmente devastante non viene usata come arma da chi ne detiene la conoscenza.  Con gli esempi si potrebbe proseguire a lungo, tutti peccati veniali forse, impossibili però da non registrare.

Rothfuss scrive di gran lunga meglio della media dei suoi colleghi, seppur non bene quanto la Hobb e neanche lontanamente quanto Martin, ma tutto sommato non incanta, buone ad esempio le descrizioni ma i periodi davvero incisivi  sono  pochi, inoltre dissemina indizi che si capisce benissimo che torneranno in seguito a risolvere porzioni di trama, concessione necessaria ma che personalemente amo che venga usata con maggiore opacità.

Non una delusione in definitiva e scommetto anzi che, per la gioia di Fanucci, i giovani appassionati di Fantasy e Fantastico lo troveranno strepitoso: del resto è gente con lo stomaco di ferro cui puoi vendere decine di volte lo stesso libro di vampiri  senza che se ne accorgano neppure lontanamente, figuriamoci gli strepiti davanti a un buon romanzo d’avventura con alcuni apprezzabili elementi di originalità.

Sono combattuto se comprare il secondo volume della trilogia oppure no, si tratta di  altre 1141 pagine e il nostro eroe non è neppure a metà dell’addestramento… certo Rothfuss ci spiega con dovizia di particolari che gli Edema Ruth, il popolo di girovaghi  cui Kvothe appartiene, sono famosi per la narrazione di storie lunghe e dettagliate  ma io, che ahimé nella vita non faccio il girovago ed ho quintalki di altri libri da leggere, non so se ho abbastanza tempo e voglia per starli  ancora molte notti ad ascoltare.

Piccola nota di demerito per Fanucci, il testo presenta parecchi refusi.

Voto: 6

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Gli altri 11 Settembre

Faieta – Del Barba, pp.320

Editori Riuniti, Euro 16

Tra la fine del 2001, fin dal primo giorno si potrebbe dire, e il 2008 circa mi sono ampiamente documentato sull’11 Settembre e sulle teorie alternative ad esso collegate. Ho visto ogni documentario, letto diversi saggi e un’infinità di articoli, seguito le discussioni sui Forum on-line  e i dibattiti televisivi che da un certo periodo in poi hanno cominciato ad apparire anche sui media mainstream.   Alla fine, la raccolta metodica di informazioni  mi ha permesso di farmi un’idea  di cosa potrebbe e cosa non potrebbe essere accaduto quel giorno, permettondomi di maturare qualche certezza in mezzo ad un groviglio ancora irrisolto di dubbi e piste senza sbocchi. Pur avendo dedicato all’argomento tanto tempo e una certa dose di passione, non ne ho mai scritto, neppure su Aramcheck un blog in cui imperialismo, geopolitica, guerra e terrorismo hanno rappresentato il tema principale di moltissimi post. Questa decisione di non scrivere sull’argomento è spiegata in un post dal titolo Del Complotto, per la convinzione che il livello del dibattito sull’argomento era arrivato ad un grado di complessità  tale da non poter essere affrontato  dai media tradizionali quali la TV e di radicalismo tra fazioni contrapposte così integralista, da rendere le discussioni su Internet incapaci di individuare anche la minima evidenza oggettiva di partenza per una discussione comune. Tra i vari Mazzucco, Chiesa e Blondet da un lato e Paolo Attivissimo (per dirne uno che almeno ha lavorato  alle confutazioni con ossessiva  meticolosità) dall’altro e i rispettivi seguaci, il FLAME era diventato la forma di comunicazione ordinaria. L’11 Settembre , argomento centrale per capire quel complesso processo storico che ha portato dalla Guerra Fredda al già declinante primato unilaterista statunitense, sul web era ridotto al genere di discussione cui non amo partecipare.

Il saggio di Faieta e Del Barba ha rappresentato l’occasione di riprendere in mano l’ argomento dopo qualche anno di riposo, un’ inchiesta di secondo livello lo potremmo definire, un saggio che raccoglie prevalentemente indagini e tesi sostenute da altri e le mette a confronto, ripercorre un lungo dibattito tenendosi equidistante per quanto possibile dalle fazioni, usando una terminologia universitaria potremmo parlare di una tesi compilativa, che non lavora su  ipotesi originali o innovative  ma si pone l’obbiettivo di mettere ordine in una bibliografia sterminata e controversa. Si potrebbe pensare che la definizione sminuisca il lavoro dei due autori, invece no, perché era esattamente ciò di cui si sentiva il bisogno. Certo, neppure Del Barba e Faieta raggiungono le stanze del Minotauro per sconfiggerlo una volta per tutte, né pretendono di farlo, ma  qualcuno ha finalmente  svolto un lavoro difficle e urgentissimo nello stendere un filo di Arianna  in grado di mappare il labirinto, le sue strade circolari, i vicoli cechi e le biforcazioni decisive.  Dopo dieci anni di discussioni, inchieste, insabbiamenti e disseppellimenti, senza tale mappa il lettore che si avvicinasse oggi all’argomento rischierebbe di perdere l’orientamento fin dalle prime stanze, sommerso da dati contrastanti e infine  costretto, nella cacofonia delle voci coinvolte,    a rifugiarsi in un pirandelliano, così è se vi pare. Raccontando la storia di mille inchieste e altrettante controinchieste, con una voce terza e, pregio maggiore per un saggio divulgativo, chiara, gli autori rendono un grande servigio alla comprensione di un dibattito centrale nei contenuti, cosa avvenne realmente quel giorno e perche? , e interessante perfino nei modi e nelle forme in cui si è sviluppato, cos’è una teoria del complotto, quando essa è credibile e quando nella società tali teorie fanno più presa?. A questa seconda domanda fa riferimento soprattutto l’ultima parte del saggio in cui partendo dall’11 Settembre si ripercorrono altri complotti entrati nell’immaginario americano, in particolare le morti di Malcolm X, Martin Luther King, Monroe, Presley lasciando a sorpresa da parte la morte  di JFK, madre  di tutti i complotti, forse perché avrebbe necessitato di un libro a se.

Dagli argomenti classici quali il Pentagono e le demolizioni controllate, a quelli più sottili come le speculazioni finanziarie precedenti al disastro e l’omicidio di Massoud, fino alla morte di Osama Bin Laden, ogni aspetto della vicenda è ripercorso con scrupolo e lucidità, dedicando uno spazio, per fortuna molto modesto, perfino alle allucinazioni fantamassoniche e alle speculazioni numerologiche e cabalistiche.

L’edizione di E.R. non sembra granché al primo tocco, ma ha resistito bene ai miei maltrattamenti che, come chiunque abbia avuto la sfortuna di prestarmi un libro sa bene, equivalgono per i volumi cartacei a quello che la zelante attività di Torquemada rappresentò per i corpi degli eretici.

Voto: 7-

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Di Regine, di Sante e di Streghe

 

 

 

 

 

 

 

S. Berti Franceschi, Euro 15
Elmi’s World, pp. 126

Elmi’s World è una piccolissima casa  editrice valdostana, attenta tra le altre cose alle tematiche riguardanti l’identità di genere, la cui fondatrice e la sua principale collaboratrice abbiamo avuto il piacere di conoscere e delle quali ci è piaciuto tutto: spirito, coraggio editoriale e, dopo questa lettura, anche le pubblicazioni.  Questo è un piccolo saggio (romanzato se ci si attiene al nome della collana nel quale è stato collocato) che ripercorre il ruolo, sottostimato e poco raccontato, della donna nel Medio Evo attraverso una collezione di microbiografie, appunto, di regine di sante e di streghe. L’idea ci è piaciuta molto fin dall’inizio e si è fatta apprezzare anche la modalità narrativa scelta dall’autrice, precisa nella ricerca storica ma soprattutto attenta  all’aspetto umano delle protagoniste che spesso la cronaca  storica di stampo didattico e la mitopoietica non lasciano trasparire o rischiano addirittura talvolta di deformare e fraintendere. Figure di spicco entrate nell’immaginario collettivo di Sante (da Sant’Orsola a Giovanna D’Arco) e Regine (da Ginevra a Maria Tudor) e figure più oscure, espesso addirittura più interessanti, di donne comuni  inaspettatamente moderne,  travisate per streghe dall’ottusità dei tempi in cui vissero, si alternano in poche efficaci pennellate biografiche, stimolando tra le altre cose la lettura e l’approfondimento di testi più corposi e specifici. Piacevole, originale, interessante, costosetto (ma ci è stato regalato) e appena  un po’ naif.

Voto: 6+

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Fascisteria

 

 

 

 

 

 

 

 

Ugo Maria Tassinari, pp. 704
Sperling&Kupfer, EURO 17

Una prima edizione di Fascisteria era uscita nel 2001 ed era stato definito, con una certa soddisfazione dell’autore, la più completa enciclopedia della Destra Radicale, questa è l’edizione del 2008 rivista, ampliata, aggiornata e, a quanto si legge dalle bandelle di copertina, riscritta. La prima cosa che colpisce accostandosi alla lettura è effettivamente la vastità  e la completezza nella trattazione di sessant’anni di neofascismo italiano, con alcune scelte politiche, a mio avviso condivisibilissime, come quella di inserire il movimento leghista e i movimenti indipendentisti minori ad esso legati nel computo dell’estrema destra, fatto del tutto  evidente a mio giudizio negato dalle forze politiche, alleate e opposte, per ragioni di convenienza elettorale e convivenza istituzionale. Per stessa ammissione di Tassinari fin dall’introduzione nel testo prevalgono le biografie piuttosto che l’analisi politologica e sociale, la mitografia e la mitopoietica piuttosto che l’inquadramento nel contesto storico e nell’ordine cronologico. Questo approccio ne favorisce l’aspirazione, irrealizzabile ma approssimabile, di esaustività andando a scovare tendenze e gruppuscoli ascrivibili alla destra radicale ma lontani nel loro percorso, politico, ideologico e talvolta spirituale, dalle formazioni parlamentari, extraparlamentari o espressamente terroristiche e criminali più note alla cronaca, come l’MSI, l’FdG, Ordine Nuovo o i NAR, tuttavia ne penalizza fortemente la leggibilità. La seconda cosa che salta agli occhi del lettore è che ci si trova davanti ad un testo  che enumera facce, fatti e circostanze senza mettervi ordine, rischiando anzi di spezzare ulteriormente le già contorte linee di collegamento con cui si vorrebbe tracciare la toponomastica di  una galassia complessa e frammentaria. Tanto poco organica risulta la storia dei neofascisti in Italia tanto Fascisteria fallisce clamorosamente nel tentativo di affrontarla in modo organico, non soltanto nell’analisi storica complessiva e nello sforzo di catalogazione cronologica e ideologia, che potevano non essere nelle intenzioni o nelle facoltà dell’autore, quanto nella continuità della lettura del saggio come un corpo unico che si voglia anche piacevole e chiaro alla lettura. Cogliamo così storie personali e percorsi esistenziali e politici incrociati, spesso interessanti per chi è attirato dall’argomento, in una generale decontestualizzazione complicata per di più dalla miriade di nomi, sigle e riferimenti. Ci aiuta, riprendendo il libro in mano a lettura terminata, l’indice analitico soprattutto nel ritrovare facce e vicende che immancabilmente fanno ritorno negli interminabili rigurgiti parafascisti e pseudofascisti italiani, relegando l’utilità del testo soprattutto ad uso di consultazione.   Davanti a questo grave limite e alla luce che il testo si diceva riscritto per questa nuova edizione, pone dubbi sulle capacità di Tassinari come saggista, mentre non ve ne sono affatto quanto alla sua preparazione come esperto sull’argomento. Tassinari, che di destra non è, viene a volte accusato da sinistra di essersi infatuato dell’oggetto del proprio studio, su questo non discuto sia perché mi interessa prevalentemente l’utilità del testo a fini di comprensione del fenomeno più che le idee dell’autore, sia perché non stupisce o scandalizza più di tanto che scavando in profondità nelle vicende personali di un nemico politico si possa trovare un uomo per il quale sviluppare in certi casi perfino una forma di empatia e forse perfino di comprensione (solidarietà e giustificazione no, quelle sono invece tutt’altra cosa), la banalità del male in fondo, che si sovrapponga alla distruttività dell’ideologia cui aderisce e che lo rende nei fatti, come nel caso di molti neofascisti, un mostro in tutto e per tutto. Tuttavia, se Tassinari sull’onda della cronaca  termina il saggio con l’invocazione a verità e giustizia per Gabbo, riferendosi all’assurdo omicidio del neofascista Grabriele Sandri (neofascista in quanto chi andò sul sito MySpace del ragazzo il giorno della sua morte vi trovò, insieme alla toccante  normalità degli  scambi di messaggi tra amici che certo non pensavano di essere alla vigilia di una tragedia, anche avatar con svastiche e invocazioni al White Power), scelta nella quale non entriamo e alla quale non vogliamo contrapporre la nostra, ma su questo blog in un momento in cui l’Italia trova  a Firenze il suo Breivik e orde di bestie sanguinarie incendiano campi Rom sulla base delle accuse di uno stupro inesistente, noi ricordiamo con commozione e  solidarietà per la comunità senegalese, l’orribile omicidio di Samb Modou e Diop Mor, comunque la si pensi sullo stato mentale di Casseri,  ennesime vittime innocenti della lunga striscia di sangue lasciata dietro di sé dal neofascismo italiano.

Voto: 6 (soprattutto per consultazione “enciclopedica”)

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Richard Matheson – I migliori racconti


Richard Matheson, pp.178
Fanucci Editore, Euro 5

I libri del maestro, la cui gloria  imperitura per aver scritto Io sono leggenda  nessun Wilburn Smith può offiscare,  intanto si acquistano poi, presto o tardi,  si trova il tempo per leggerli. Li si acquista con maggiore facilità se Fanucci pubblica una raccolta coi suoi migliori (?) racconti a soli 5 Euro, per poi scoprire che si è risparmiato sulla rilegatura e il volume si sfalda come le vecchie edizioni TIF, fragilissimi tascabili  Fanucci di qualche anno fa, che perdevano pagine  come le foglie i platani in autunno.  Molti racconti sono bellissimi  anche se forse non tutti, tutti però sperimentano soluzioni o temi originali (anche considerando il tempo  in cui furono scritti) , lo stile è quello essenziale e impeccabile di Matheson anche se forse è sulla distanza del romanzo  a risultare ancora più incisivo. Soprattutto nel testo si notano ovunque le intuizioni di una fantesia potente e irrequieta come quelle di pochi altri scrittori. I racconti sono in certi casi famosissimi e hanno ispirato film e omaggi di tutti i generi, dall’omonimo film Duel a,  se non erro,  un episodio di un albo speciale di Dylan Dog per Nato di Uomo e di Donna.

Voto: 6,5

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Soluzione Finale.

 

 

 

 

 

 

 

Michael Chabon,   pp.166
Rizzoli,   EURO 12

Acquistato dopo aver sentito parlare bene di Chabon da più parti, soprattutto on-line e soprattutto dopo la vittoria del premio Hugo per “Il sindacato dei poliziotti Yiddish”, come spesso mi capita con gli autori che non conosco scelgo un testo agile per saggiarne lo stile e il taglio  scelto nel trattare gli argomenti. Non sempre questo approccio si è rivelato felice e una volta in più medito di abbandonarlo. Si rischia spesso di pescare opere minori, pubblicate magari per interesse editoriale sull’onda del successo dell’autore, oppure si incappa raccontini stiracchiati a romanzi o veri e propri divertissement che non dicono molto sull’opera più ampia dello scrittore.  Soluzione finale svolge un’operazione di recupero vagamente affine a quella della Maledizione degli Usher resuscitando il celebre Sherlock Holmes alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ormai ottuagenario e ritirato dalla dalla scena pubblica per una tranquilla vecchiaia da piccolo apicoltore. Le premesse sarebbero ottime , ma l’eroe positivista di Arthur Conan Doyle ne esce mortificato, privo della forza e del fascino che ebbe in gioventù, la storia è noiosa e priva di pregi a parte lo stile gradevole e sicuro, ma  ridotto quasi ad un tocco di pennello un po’ naif nello scialbore del contesto. Il finale tra tenerezza e memoria dell’Olocausto  ridona senso all’intera lettura, senza sovvertire la generale sensazione di pochezza, per un testo che poteva ambire a lasciare  tracce più profonde e un omaggio più corposo e utile a SH il quale, si fosse chiamato Mario Rossi, ai fini del romanzo sarebbe cambiato ben poco.

Voto: 5

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Ali e corazza

copertina
Daniele Trovato,  Euro 13
Edizioni Autodafè, pp. 128

Ali e corazza.
Questo è spam. Impietosa recensione a breve …
Da ufficioso correttore di bozza posso solo anticipare: compratelo! 🙂

— jC

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La maledizione degli Usher

Robert McCammon, pp.486
Gargoyle, EURI 17,50

Gironzolando per “Più libri più liberi” lo scorso anno, sono rimasto come sempre incantato davanti allo stand di Gargoyle, rapito da un estasi quasi feticistica per la bellezza delle  copertine e rilegature di ogni loro pubblicazione. Inoltre dopo aver provato il Battello del Delirio, verrebbe voglia di leggere tutto anche a chi, come nel mio caso,  l’horror di cui occupa prevalentemente Gargoyle non risulta esattamente congeniale. Recuperata  lucidità dopo la trance consumistica degna del pinguino Opus, ho chiesto alle persone di Gargoyle presenti allo stand di consigliarmi un testo che fosse a loro giudizio tra  gli “imperdibili”. Il suggerimento si è orientato subito su McCammon, autore su cui Gargoyle punta molto e del quale ha tradotto molto e deduco detenga i diritti di esclusiva italiana. Tra i testi di McCammon ho poi acquistato questo, operazione di recupero, riattualizzazione  e soprattutto di continuazione, estendendo la vicenda verso la dimensione della saga,  del racconto di Edgar Allan Poe “la caduta di casa Usher”, sperando che il confronto diretto e cercato con un tale gigante  della letteratura americana avesse stimolato McCammon a fare del suo meglio. Inoltre, cosa lodevolissima, il romanzo contiene come prologo proprio il racconto di Poe che avevo voglia di rileggere a quasi vent’anni di distanza.

Inutile dire che non appena si abbandona Poe per far posto alla prosa di McCammon, il livello linguistico e letterario precipita in un abisso apparentemente senza fondo al termine del quale il corpo scritto dell’autore contemporaneo si schianta spezzandosi in una composizione astratta di membra disarticolate e parti anatomiche orribilemnte scomposte, nella migliore tradizione splatter. Neanche è c’è da farne una gran colpa a McCammon, il punto è piuttosto che quando ci si confronta con dei mostri sacri o li si approccia in parodia, quindi senza rispetto, o si rischia di non reggere l’inevitabile confronto. Mostro tra l’altro particolarmente tenebroso quello Poe per uno scrittore horror, visto che il maetstro ha praticamente inventanto un genere, quasi due  anzi, visto che non si dovrebbe dimenticare il pegno che la giallistica in generale e l’immaginario dell’eroe positivista, da Holmes al Dr.House, pagano alla triclogia di racconti che ha per protagonista Auguste Dupin.

Qulello che resta sul ring dopo lo scontro cruento tra due secoli tanto distanti è un discreto thriller-horror, lento all’inizio, vagamente holliwoodiano in certi punti, con frequenti e ingiustificate incursioni nel supernatural, un buon intreccio di base che si fa addirittura ottimo quando l’autore ricostruisce le fasi intermedie della saga degli Usher nel periodo che va dal racconto di Poe agli anni ottanta in cui si svolge la nuova vicenda. Stranamente, McCammon sembra più bravo nel descrivere e costruire i personaggi nelle loro interazioni quotidiane, se non proprio realistiche per lo meno verosimili, che nelle scene di terrore vere e proprie che risultano assai poco spaventevoli.

Non male, ma un’edizione così, con un prezzo alto e un’idea talmente ambiziosa alle spalle, meritava  forse qualcosa di meglio.

Voto: 6-

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Garbatella Combat Zone


Massimo Smeriglio, pp. 170
Voland , EURO 13

Voland ha distribuito in modo capillare questo romanzo oltre che nelle libreire romane  anche nelle edicole della Garbatella e dei quartieri limitrofi come quello in cui abito io. Noi alla Garbatella andavamo, in bicicletta o con due fermate d'autubus, a passare i pomeriggi per giocare a biliardo, passaggiare tra i deliziosi lotti o incontrare qualche amico del posto. Impossibile ignorare dunque un titolo così, tanto più per gli orgogliosi e campanilistici abitanti della Garbante, e difficle non comprarlo. Perfino la foto di copertina è il particolare di uno dei tunnel che passano sopra i binari della Metro Garbatella, dettaglio registrato inconsapevolmente migliaia di volte  che adesso torna a civettare dal frontespizio del quaderno Voland. Parto quindi con le migliori premesse e tutta la simpatia per Smeriglio,  l'impressione è che però l'autore su questa empatia territoriale ci abbia puntato un po' troppo. Non è un libro sulla Garbatella ma una trama a metà tra l'avventura e la crime-story in cui la Garbatella di Smeriglio, che non può che essere uno spaccato molto personale e letterario della Garbatella reale, fa di tutto per diventare la vera protagonista attraverso continui riferimenri storici tra il reale e il leggendario, omaggi alla memoria, citazioni e toponomastica, tali da rendersi invadenti rendendo a sua volta il testo un po' stucchevole e didascalio a scapito delle atmosfere del luogo che  non trovano la forza per emergere. Anche il retroterra musicale, sociale e politico del personaggio principale è piuttosto personale ed esplicito in fatto di citazioni, il che contribuisce a dare l'impressione che ci sia da parte di Smeriglio la volontà di creare un' "epica di quartiere" e in definitiva, un'epica delle proprie origini e della propria giovinezza, operazione che a me suona spesso un po' adolescenziale. Inoltre la trama piuttosto densa e ricca,  dal ritmo un po' pulp e non sempre plausibilissima, sembra avere dei binari morti come se il libro nella sua versione pubblicata fosse la versione potata di una siepe che altrimenti avrebbe rischiato di invadere tutto il giardino. Il primo di questi binari sembra proprio il club di combattimenti clandestini che da il nome al romanzo e viene citato pochissimo senza il tema venga sviluppato in nessun modo.  

Adesso questa che sto scrivendo sembrerà una cattivissima stroncatura, ma non lo è, si tratta di un eccesso di critica figlio di un eccesso di attenzione. L'idea di una letteratura territoriale che riesca in poche pagine a restituire alcuni elementi della realtà di un certo luogo o di un certo contesto sociale e che lo faccia regalando al lettore qualche spunto e qualche emozione, mi interessa moltissimo. Conoscere un luogo, una classe sociale o un contesto cultura attraverso una storia scritta in un linguaggio che sia contemporaneo, serrato e complessivamente accattivante, è esattamente uno di quei generi di narrativa che da lettore desidero leggere e da scrittore avrei voglia di scrivere.

Sono contento di aver letto Garbatella Combat Zone, contento di averlo comprato e lo consiglio a chi sia interessato a questo tipo di progetti. Il romanzo non è scritto male, si lascia leggere, ha passaggi accattivanti, sembra figlio di una grossa passione e di una certa attenzione a tenere alto il ritmo attraverso un taglio veloce nel cambio delle inquadrature. Spero che Smeriglio continui su questa traccia e aspetto di leggere il suo prossimo lavoro

Voto: 6

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L’ubicazione del bene.


Giorgio Falco, pp. 141
Einaudi Stile Libero, Euri 16

Ho comprato questa raccolta di racconti ad ambientazione comune su suggerimento della "critica", di un critico in paricolare Cortellessa, che durante un'interminabile disputa con Wu-Ming sul NIE, citava il testo come tra i più "letterari" e quindi a suo parere degni di nota, apparsi sul panorama italiano negli ultimi anni.  Ho il dubbio che la mia sia stata una lettura distratta soprattutto all'inizio, quando non avevo capito che da un capitolo all'altro stessero in realtà cambiando i racconti, i protagonisti e le vicende che, a parte luogo e stile, non avevano in realtà nulla in comune. D'altra parte non c'era nessuna variazione ritmica, grafica o stilistica a segnare il passaggio di consegne tra un narratore e l'altro. Perso  inizialmente un po' del piacere della lettura cercando di riallacciare i fili di una trama unica che tale non era, sono gradualmente entrato nell'atmosfera perfettamente resa da Falco di Corte Sforza, periferia immaginaria di una Milano fin troppo reale, teatro di tutte le vicende narrate e vera protagonista di tutti i racconti. Nel vuoto  emotivo e culturale del sobborgo fatto di piccoli status symbol e villette a schiera, si realizza l'unità di luogo di Falco in cui i suoi personaggi affondano nelle proprie quotidiane miserie impiegatizie o piccolo borghesi.    

Cortesforza è dunque il luogo della marginalità, dove non avviene mai nulla o ciò che avviene apparentemente non è significativo, e in tale assenza si consumano nello spazio angusto della periferia intere vite, vite ordinarie fino alla claustrofobia.  Le storie di Corte Sforza riguardano divorzi, rapporti esausti, vendite d'immobili, crolli psichici e  individui abbandonati, piccole aspirazioni imprenditoriali e arrivismi aziendali ancor più piccoli e miserabili. Un libro ben scritto, ben poco ruffiano (e queste due caratteristiche forse hanno scatenato l'apprezzamento del critico), talmente capace di descrivere l'abisso della noia esistenziale da rischiare di farvi precipitare anche il lettore a più riprese.  Opera interessante, meritevole, narrazione di contesto efficace ma priva di fascino, poco coinvolgente nella misura in cui il lettore ha quasi la sensazione di osservare la  complessa e prevedibile attività di un formicaio attraverso una teca di vetro in salottto che ne tagli la sezione. Quei libri che non riesci ad amare, del cui autore però segni il nome su un taccuino.

Voto: 6+

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Diario Notturno

FLAIANO-E_diario0
Ennio Flaiano, pp.332
Adelphi,   Euri 15

Federico Fellini, di cui Flaiano fu uno dei migliori sceneggiatori, ebbe con lui un rapporto travagliato fatto di strappi e riconciliazioni, tra le altre dispute Flaiano coltivava il sogno di fare il regista, Fellini gli consigliava di dedicarsi con maggior intensità alla letteratura. Difficile ipotizzare che tipo di regista sarebbe stato Flaiano, di certo la sua penna,  al servizio del cinema, del teatro o della narrativa che fosse, possedeva lo stile e l'intuizione folgorante dei grandi. Flaiano è inoltre probabilmente il più grande inventore di aforsmi della letteratura italiana del novecento, basta farsi un giro su Wikiquote a la pagina a lui dedicata per averne più che un assaggio. Il vero e proprio Diario Notturno, taccuino di appunti scritti rubando paradossi alla realtà del suo tempo,  è introdotto e seguito  da gustosa  collezione di racconti, tra cui, eccezionale,  Un marziano a Roma la cui verità di fondo sul carattere accogliente, caotico, annoiato e perennemente decadente della città resta immutata a distanza di decenni. Non stupisce in fondo che a scriverlo sia stato un pescarese, alcune sfumature si percepiscono con chiarezza soltanto con uno sguardo che, almeno in principio, era stato esterno. 


Chissà che regista sarebbe stato flaiano, dicevamo, di certo la sua cinica ironia, lo humor nero e la fulminante capacità di raccogliere in poche eleganti parole lo spirito del dopoguerra e del boom economico, oltre  all'ineffabile  volkgeist italiana, rientrano di diritto tra i doni più belli della letteratura italiana del novecento.


Voto: 8

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Pandemonium


Daryl Gregory,  EURO
Fanucci,  pp.327

In un presente alternativo, dove alcune vicende storiche del secondo novecento hanno preso una piega diversa,  la popolazione è tormentata da possessioni "demoniache" che trasformano, per periodi di tempo relativamente brevi , ignari cittadini in pazzi invasati, costretti a ripetere all'infinito strane e spesso violente ritualità psicotiche. Dalla fascetta di copertina il signor Fanucci invita gli ammiratori di Philip Kindred Dick a leggere questo libro. La tipa, di cui non ricordo il nome, allo stand Fanucci di "Più libri più liberi" me lo ha caldamente consigliato quando le ho chiesto di indicarmi qualche nuova uscita fantascientifica degna di nota. Effettivamente Philip Dick compare  nel testo come personaggio secondario, un corpo biologico dikchiano  posseduto dall'entità  razionale VALIS che gironzola per i raduni di appassionati dispensando pillole di saggezza, dopo di che  finiscono le affinità con la figura delllo scrittore di "Scorrete lacrime disse il poliziotto". Più l'omaggio, strumentale  alla narrazione, ad un grande autore che la continuità con l'opera d'un maestro.  In realtà, la contemporaneità ucronica di Gregory è lontanissima dalle spiazzanti distopie di Dick e l'ambientazione e lo stile ricordano più il Gaiman di American God (leggete quello piuttosto). Il protagonista, pur scavando in lurgo e in largo nel proprio passato, risulta sfuggente e il romanzo ne soffre. I Demoni sono delle maschere volutamente prive di profondità,  che pretendono di inquietare il lettore con le loro compulsioni ossessive  e la loro sola presenza. Gregory evita con merito la ricerca  del colpo di scena a tutti i costi, ma il romanzo si limita a  lasciarsi  leggere,  mentre alcune idee che sembrano feconde muoiono sul nascere, la lettura scorre liscia senza appassionare  troppo e senza stupire granché.

Voto: 5.5

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Troppo buoni con le donne


Raymond Queneau, pp.162
Einaudi Tascabili, Euri 10,5

Un manipolo sgangherato di rivoluzionari repubblicani occupa un ufficio postale a Dublino nel 1916, sfidando apertamente l'impero britannico che, con la proverbiale  flemma, tenta di reprimere la rivolta a suon di cannonate. Un vero romanzo irlandese che lui si sarebbe limitato a tradurre, mente apertamente Queneau, coi dialoghi e la prosa che li introduce scritti in uno slang quasi sgrammaticato, utilizzando un artificio simile a quello che nella versione italiana de "Il dottore è ammalato" di Burgess viene utilizzato per il Cockney londinese. Difficile capire quanto il gioco linguistico teso ad imitare la parlata popolare irlandese sia ascrivibile al traduttore piuttosto che a Queneau il quale, mi avvertiva qualche mese fa JoeCHIP impegnato coi Fiori Blu, andrebbe probabilmente letto in lingua originale. Dalla quarta di copertina Starnone esagera un po' scomodando aggettivi forse esagerati per questo divertissement scritto nel 1971, più comico che pornografico, salace più che realmente misogino. Bisogna resistere qualche pagina prima di abituarsi allo stile e cominciare a dipanare la trama, poi tra equivoci incrociati, spunti satirici e personaggi esilaranti, la lettura scorre allegra fino alla fine come in una bella commedia teatrale, appena un po' cattiva.

Voto: 6.5

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Nel grande show della democrazia

Nel grande show della democrazia
Marco Bosonetto, pp242
Laurana,  EURO 16,50

Innanzitutto auguri a Editore Laurana, casa editrice nata nel settembre 2010 da uno spin-off  di Melampo che si propone, se ho ben capito, di pubblicare letteratura prevalentmente italiana che abbia come punto di riferimento il contesto attuale o degli ultimi decenni, alla ricerca forse di quell’arte della crisi per la quale personalemente  nutro particolare interesse. Il romanzo di Bosonetto è una storia con diversi protagonisti le cui vicende si incrociano nell’Italia dei prossimi decenni senza che, a parte pochi spunti, gli aspetti fantascentifici o futurologici abbiano in realtà un grande peso. Si legge bene e Bosonetto trova di tanto in tanto spunti interessanti, con alcuni ritrattini che alludono alla fauna politica e sociale dell’Italia piuttosto azzeccati e perfino prevedibili nella loro riconoscibilità. Alcune scelte stilistiche lasciano perplessi come le continue ripetizioni di interi periodi a distanza di poche righe, che sembrerebbero quasi tentativi di ricapitolare la storia al lettore mentre sono in realtà, almeno credo, sottolineature di passaggi che evidentemente l’autore reputa particolarmente brillanti. L’espediente è piuttosto comune e in genere efficace per periodi brevissimi e fulminanti, in questo caso finisce invece per appesantire inutilmente la lettura. Alcuni dei personaggi erano presenti in romanzi precedenti di Bosonetto, ma per chi come me legge l’autore per la prima volta  i richiami chiaramente sfuggono. L’argomento e la collocazione temporale della vicenda sono intriganti, il prezzo è un po’ alto, mentre mi piace il formato  tascabile in viola (nessun riferimento politico suppongo), standard per la collana Rimmel.

Voto: 6+

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Imperdonabili


Philippe Djian,  pp. 164
Voland Intrecci,  EURO 14

Il protagonista proposto da Djian è, proprio come l'autore, uno scrittore sessantenne che vive a Biarritz, in terra basca. La storia, quasi diaristica ma a quanto si evince dalla biografia di Djian non strettamente autobiografica,  anche se raccontata attraverso lo stratagemma dello scrittore-narratore è scevra dal compiacimento stilistico e dalle ridondanze  letterarie che ci si potrebbe aspettare in questi casi. Lo stile è invece asciutto, colloquiale e quotidiano, si ha dunque l'impressione di essere nella testa del protagonista più che nella sua penna. La scelta è efficace e i ritmi si adeguano con naturalezza al vissuto e alla vicenda personale del protagonista  in cui dominano una certa stanchezza esistenziale, l'ansia rispetto all'inadeguatezza del proprio presente e, schiacciante, il peso di un passato tragico continuamente  rivissuto attraverso la frequente irruzione di vividi flashback. Scrivo  "quasi diaristica" perchè in realtà l'artificio letterario compare  nella narrazione degli eventi topici, microclimax il cui intreccio, tessuto con attenzione nelle pagine precedenti, si risolve in modo anaforico spiazzando puntualmente  il lettore proiettato di colpo nell'istante successivo allo svolgimento dell'evento atteso. Gii accadimenti che dirimono l'intreccio vengono poi spiegati nelle pagine successive sotto forma di nuovi flashback interni al romanzo, il meccanismo funziona, l'interesse per la vicenda resta vivo e l'autore ha modo di introdurre i passaggi successivi per poi svelarli attraverso lo stesso sistema. Piacevole, ben scritto, di certo auotobiografico  in senso anagrafico e generazionale, in cui l'ingresso nell'età matura non porta quella pacificazione con la propria storia personale,e famigliare, come ci si potrebbe attendere e, forse, augurare. L'animo umano con l'esperienza s'intestardisce forse ma resta sostanzialmente irrisolto, la saggezza e il buon senso sembrano armi spuntate contro le passioni del mondo e il perdurare delle proprie frustrazioni. La grafica elegante e il comodo formato dei "quaderni" Voland infine, si fanno sempre apprezzare.

Voto: 6,5

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Istruzioni per rendersi infelici.


Paul Watzlawick, pp. 120
Feltrinelli,  EURO 6,5

Si legge in un pomeriggio questo pamphlet dell'impronunciabile professor Watzlawick, psicologo di origine austriaca ma professionalmente appartenente alla scuola statunitense di Palo Alto. Un giochino intellettuale basato sul ribaltamento di senso, esposto in chiave umoristica, in cui l'autore canta le lodi dell'infelicità ed espone tutte tecniche, che spesso  siamo bravissimi nell'applicare alla perfezione senza nemmeno averne coscienza, per procurarcene a volontà in modo completamente autarchico, senza bisogno di generosi interventi esterni. Le tesi, pur poggiando sul lavoro e sull'esperienza del prof,  vengono proposte con approccio talmente divulgativo da non far mai riferimento a dati e casistiche. Quasi un manualetto del non saper vivere, letto il quale basta applicare l'esatto contrario di quanto prescritto, da qui il ribaltamento umoristico,  per avere forse un'esistenza meno insopportabile del necessario. Un po' sbrigativo, molto vendibile, alla lunga (pur essendo brevissimo) perfino noioso nella ripetizione dello schema espositivo, non s'è  rivelato pane per i nostri denti. Un'amica nel ramo, mi consiglia dello stesso autore "Change" descrittomi come un classico. Vedremo di acquistarlo.

Voto: 5

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Il battello del delirio.

Robert McCammon, pp.486
Gargoyle, EURI 17,50

Tra le mie letture George Martin occupa il podio (per lo meno tra i vivi) per la narrativa d’evasione. Ho iniziato con le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco nel fantasy  per poi proseguire con le raccolte di racconti di fantascienza, due generi coi quali ho una certa familiarità. Questo romanzo di vampiri rientra naturalmente nell’horror, genere per cui non ho mai avuto il minimo interesse frequentato sobbalzando infastidito e terrorizzato al cinema per qualunque boiata in cartapesta e mollando prematuramente i romanzi del genere (esclusi Poe e Lovecraft naturalmente). Non riuscivo a finire nemmeno  i primi e mi dicono migliori romanzi di King, per citare un autore  che nessun lettore si è pare essersi fatto mancare. Aspettavo il film, per poi sobbalzare puntualmente terrificato e infastidito dalla visione. Un grazie, l’ennesimo, a Martin dunque, che mi ha concesso di godere di questa lettura non troppo spaventosa forse, ma avvincente e ben scritta. Al solito i personaggi sono costruiti in modo spettacolare, l’intreccio funziona e se la trama è un po’ classica, per lo meno ci risparmia smielate storie d’amore tra vampiretti in salsa High School. L’ambientazione storica anzi, i battelli commerciali a vapore che solcavano il Mississipi alla vigilia della seconda rivoluzione industriale, aggiunge fascino e motivi di interesse alla narrazione, a cominciare dalla sottotrama dedicata alle gare di bellezza e velocità tra i giganti del fiume. “Il battello del delirio” venne scritto più di vent’anni fa  ed era ormai  reperibile soltanto in rete in versione pdf, la  nuova traduzione ad occhio e croce, non ho letto per intero la vecchia, pare migliore della precedente,e fa parte dell’opera di riscoperta delle opere precedenti di Martin  iniziata da Mondadori e che oggi coinvolge Rizzoli  (Wildcards) e appunto Gargoyle. Tutto naturalmente sull’onda deillo straordinario successo  delle eternamente incompiute Cronache, la cui  conclusione è attesa da anni tra i famelici fan di tutto il mondo. Fortunatamente per gli editori pare che con Martin si possa procedere pubblicando a colpo sicuro e, a questo punto, attendiamo la ripubblicazione di “Luce Morente”, romanzo pubblicato in Italia nel 1979 e oggi perso nell’oblio.

Nota sull’edizione: il libro coi suoi 18 euro è costosetto, ma le copertine e il formato delle edizioni Gargoyle sono semplicemente sontuose.

Voto: 7

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